mitomania

Ci sono delle cose che succedono a prescindere da te – perlomeno, a me succedono spesso. Tipo ad esempio ieri sera ho avuto un’agnizione e mi sono resa conto che un tema a me molto caro e che sto frequentando ormai da un bel po’ attraverso libri, serie tv e documentari è quello dei mitomani.

Sarà perché sto molto su internet, dove la mitomania è praticamente l’unico mezzo espressivo esistente, o sarà che i social media e il concetto di filtro instagram hanno in qualche modo istituzionalizzato l’espressione attraverso la finzione. (fingiamo che “finzione” sia un termine semplice.)

E insomma il tema del mitomane è ricorrente, presente ma sopratutto per me interessante come un mistero, come un abisso: non è mai solo il mitomane in sé ma la gente che gli crede, che gli va appresso, che si compra tutto. Mi affascina però non perché so che non potrebbe succedere a me, ma perché comprendo che è possibile succeda a tutti.

Il fatto è che a sentirle raccontare le storie di mitomani ti sembrano sempre tutti imbecilli, quelli che gli sono andati appresso, tutti coinvolti nelle loro malefatte, tutti etichettabili come “non poteva non sapere”.

Ma il punto secondo me è che noi NON VOGLIAMO sapere. Se quello che ci raccontano ci piace e ci suona bene non abbiamo motivi validi per cercare di dimostrare che sia falso. Salvo poi scuotere la testa allibiti, di fronte alla sensazione di imbarazzo di esserci anche noi cascati come delle pere cotte, noi che con la nostra sagacia pensavamo di essere immuni da questi trucchetti circensi.

Non sto pensando soltanto a chi pubblica foto di reportage NatGeo spacciandole per sue (lì in effetti è veramente difficile cascarci, ma posso produrre prove che è successo), penso anche a chi fonda sette, religioni, o aziende che poi vengono anche finanziate per miliardi da parte di VC che evidentemente sono squali ma col cuore di panna.

Proprio nel documentario sugli squali col cuore di panna di cui sopra (The Inventor) si dice una cosa che credo sia il nocciolo di tutto: la nostra mente è progettata per ricordare le storie, non i dati.

Io tra l’altro sono d’accordo (e lo dico dall’alto del mio sguardo da mucca che osserva il treno ogni volta che mi si apre una schermata di numeri sul computer): chi se ne frega dei dati, i dati da soli non parlano, e infatti non li ascolta nessuno. (Vedi vaccinazioni, effettiva presenza di cattivissimi migranti scrocconi nel nostro paese, e tutti i campi in cui il questo lo dice lei ha preso il posto dei dati.)

La predominanza della mente sulla realtà – esiste quello che ho io nella capoccia, non quello che esiste effettivamente, e d’altra parte se non ci fossi io ad osservarlo interpretarlo e ricrearlo come dico io nella mia capoccia, esisterebbe? – per me è un fatto, come quando quelle deliziose scarpe di quel meraviglioso punto di blu e il tacco grosso erano poi nere e senza tacco.

Questo non toglie però che quando scopri di esserci cascato con tutte le scarpe ci resti male. A me è capitato solo due volte.

Una a 14 anni, quando scoprii che quella che per me era la maestra di vita, il faro da seguire, in realtà non era andata neanche a uno dei fichissimi concerti che millantava, e la sua vita rock’n’roll era praticamente monacale come la mia. (No, vabbè, la delusione io LA SENTO ANCORA.)

L’altra a 19 anni, quando il tizio con cui uscivo mi raccontava che lui era una guardia del corpo in incognito e cose del genere. In questo secondo caso a me non interessava praticamente niente delle attività super segretissime di questo qui, per cui non ho fatto neanche lo sforzo di chiedermi se gli credevo. (L’indifferenza è l’altro grande brodo di coltura dei mitomani, anche pericolosi, vedi L’Avversario di Carrère.) Solo che, quando poi sono andata a cercarlo a casa per motivi che non ricordo, ho scoperto che quella che mi aveva indicato come “dependance di casa” era in verità il miniappartamento del portiere del palazzo, di cui lui era figlio. Nullafacente. In quel caso più che lo shock c’è stato un momento in cui mi si è rimpicciolito il cuore, gelato, stretto nella morsa della consapevolezza di quanto doveva essere triste, la vita di questa persona che fingeva di essere una persona importante. Il giudizio, ormai emesso, me lo ricordo nei suoi occhi, che si erano accorti del disprezzo nei miei, e in quella volta che mesi dopo mi citofonò cercandomi e io risposi che non c’ero, consapevole che lui sapeva che al citofono ero io.*

I mitomani sono degli stronzi ma al tempo stesso dei poracci, e la cosa è quella: ti fanno pena ma schifo ma pena ma li vorresti menare ma ti fanno tenerezza ma speri muoiano ma poi li compatisci. Questo, chiaramente, al netto di azioni perseguibili per legge o che possano mettere in pericolo le vite altrui: lì sei stronzo veramente – oppure no, è solo un supremo modo di essere vittime della propria mitomania?

Nescio sed fieri sentio.

Quindi ieri sera dopo aver visto il documentario HBO sul caso Gipsy Rose ho avuto l’illuminazione: era arrivato il momento di leggere L’Impostore di Javier Cercas. Ce l’avevo nel Kindle da due anni. Ma le cose alle volte stanno solo aspettando il momento giusto per succedere. A prescindere da te.

*(Però “pallista, bugiardo, mitomane, ridicolo” in faccia non gliel’ho mai detto. Gli ho mentito anche io, in un certo senso?)

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