È iniziato con la sagacia generica. Tutti devono essere sagaci, tutti devono avere qualcosa di brillante e azzeccato da dire. Le frasi fatte e i luoghi comuni sono ritenuti imbarazzanti, non si può accettare una conversazione che non sia sopra un certo livello di ironia, citazioni colte, riferimenti intelligenti. Fare conversazione è diventato estenuante: un continuo duello con l’avversario, una gara a chi la dice più bella, la riduzione di qualsiasi argomentazione a battuta, motto arguto, headline che inizia in un modo e però poi invece finisce con una sorpresa e fa ridere. Madonna che palle, non puoi salutarmi e basta? No, hai questa necessità, mentre mi saluti, di farmi sapere quali film hai visto, libri hai letto, canzoni hai ascoltato. Mi viene voglia di alzare la radio, sperando che passi una canzone che ti fa schifo, per farti tacere o fuggire e liberarmi da questa pantomima.
La forma scritta, che io ingenuamente avevo sempre ritenuto un modo perfetto di comunicare, perché dava il tempo di esprimersi, di trovare le parole, è diventata invece, proprio per l’opportunità di potersi fermare a trovare le parole, la doppia mandata della prigione: adesso non esiste più nemmeno l’esprit de l’escalier, impossibile rimanere senza parole, farsi venire in mente la risposta giusta quando è troppo tardi, come tutti gli esseri umani normali. Si poteva, per fare qualcosa di nuovo, stare zitti, e invece no. È un turbine di sgomitate e soddisfazione per quanto si riesce a essere intelligenti, furbi, rapidi.
Ormai non ci si salva neanche più con «i depressi, che sollievo»: anche loro hanno scoperto il modo di ammorbarci con le battute argute su quanto sono depressi e quanto è brutta la loro vita. Come se fosse un vanto avere una vita brutta, e assillare il prossimo con la propria mancanza di entusiasmo, espressa però in modo molto divertente. (Che poi vabbè, ci si potrebbe anche interrogare sulla definizione di “divertente”, ma non è questa la sede.)
Che questa sagacia coatta abbia sostituito ogni forma di pensiero appare chiaro soprattutto pensando a quella che una volta, quando eravamo fortunati e si stava meglio quando si stava peggio, e lo small talk era una cosa normale (d’altra parte di cosa cazzo devi parlare con la gente che conosci a malapena), era chiamata la livella: la morte, di fronte a cui gli orpelli umani diventano infiocchettamenti inutili. La morte, quando non c’è mai la cosa giusta da dire, e allora sì, «Condoglianze» è l’unica soluzione sensata, l’unica possibile, e va bene così. Ecco, no. Oggi abbiamo creato questa bellissima innovazione di prodotto che è la sagacia coatta applicata all’ambito funerario: anche la morte di qualcuno, adesso, è occasione di sfoggio di competenza nella redazione di frasi brillanti.
Le battute ci hanno rubato l’anima, la sensibilità, la vita. La sagacia coatta ha sostituito il contenuto della comunicazione con la sua forma. Non ha più un senso dire qualcosa, se non provoca sgomitate. Non ha più senso esprimere qualcosa, se non serve a raccogliere consensi.
Ero già stanca della sagacia coatta dieci anni fa, quando sognavo di sostituire le magliette con le scritte intelligenti con abiti da impiegati del catasto; adesso è proprio odio, voglia di seppellire i raffinati battutisti sotto una slavina di luoghi comuni, banalità, frasi fatte.
D’altra parte, se qualcuno queste frasi le ha fatte, ci sarà un motivo: ed era proprio quello di impedire alla gente di parlare a cazzo, risparmiandoci le esternazioni brillanti, per lasciarci a riflettere su quello che succede, invece di pensare a come commentarlo meglio degli altri.
Ma noi no, noi dovevamo per forza fare i simpatici.